SOMMARIO:
1) GIANNI FERRONATO “Maschi e femmine: a che punto siamo”
2) LUISA MURARO “Abusi travestiti da ragionamenti”
3) LUCA FAZIO “Io imparo a capire la guerra parlando con i giovani immigrati”
4) JUDITH BUTLER “Il lutto diventa legge”
5) Recensione ÅSA LARSSON “Sacrificio a Moloch”
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1) GIANNI FERRONATO – “Maschi e femmine: a che punto siamo”
In questi ultimi decenni, dopo l’avvento del femminismo nelle nostre società, una delle novità nella
relazione donne-uomini è che finalmente si parla, anche pubblicamente, della violenza maschile
contro le donne. Questo significa, secondo me, non tanto che ci sia un aumento della violenza
maschile sulle donne quanto piuttosto che la società, uomini compresi, non la ritiene più normale.
C’è qualcosa che non va negli uomini per non riuscire a ricomporre gli inevitabili conflitti della
convivenza umana senza ricorrere alla violenza. In Italia la situazione vista dai fatti di cronaca
sembra sconfortante. Ogni due giorni in media un femminicidio o un’aggressione grave ai danni di
una donna da parte di partners, ex, padri, o fratelli. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di una
violenza sommersa che affonda le sue radici in quel sistema di sfruttamento e di sottomissione delle
donne che è il patriarcato. Se nessuno te lo fa notare questo sistema sembra normale e naturale.
Invisibile, come l’aria che respiriamo.
Io mi accorsi a 40 anni, su insistenza di un’amica, che quand’ero giovane in casa, a lavare i piatti e
a cucinare, erano sempre e solo le donne, pur avendo esse molti altri compiti da fare. Più in generale
mi accorsi di quanta ingiustizia ci fosse nelle relazioni tra i sessi, nell’accesso allo studio o al lavoro
pagato, nella ripartizione tra maschi e femmine del lavoro di cura e di tutti quei lavori non pagati
ma necessari alla vita.
La prima ingiustizia essendo quella che nega alle donne una libera soggettività e le pensa con un
pensiero maschile che pretende di essere neutro e universale. La relazione con loro diventa
proprietaria e quando entrano in gioco anche i sentimenti e le emozioni può diventare anche
pericolosa. In questo sistema ingiusto c’è anche molta complicità femminile come ha mostrato la
psicanalisi a proposito del rapporto madre-figlio maschio, ma anche il senso comune a proposito
della seduzione femminile considerata come l’equivalente del potere maschile. Questa complicità,
di cui è bene secondo me si occupino soprattutto le donne, dà loro anche dei piccoli tornaconti. A
me interessa invece il rovescio della medaglia del potere maschile e dei suoi indubbi privilegi.
L’obbligo di primeggiare, la fatica di competere, la necessità di fingere, il controllo o la narcosi dei
sentimenti e delle emozioni, il sentimento di doversi sobbarcare il peso del mondo occupando tutto
lo spazio pubblico, spesso il sentimento di un corpo non desiderabile e l’illusione di poter comprare
l’amore. Quello che sta accadendo tra gli uomini in occidente è appunto questo. Semplicemente ci
accorgiamo che quel modo di essere uomini non è più attraente come un tempo. Oltre a essere
gravemente ingiusto nei confronti delle donne proprio non ci conviene. Quando mi accorsi di questo
fu come se mi fossi liberato di una corazza che invece di proteggermi mi ingabbiava.
Mi resi conto anche di non essere sempre stato innocente, come quando da giovane senza permesso
allungai la mano sul corpo di una donna, oppure quando fui quasi sul punto di passare all’amore
mercenario preso dallo sconforto per la solitudine affettiva, oppure quando alzavo il tono di voce
senza rendermi conto che, se fatto da un maschio nei confronti di una donna diventa sempre una
minaccia pesante. In ogni caso sentivo dentro di me che queste cose non andavano bene, ma
siccome quasi tutti facevano così, mi sentivo in qualche modo autorizzato a fare altrettanto. E a
proposito del tono di voce, mi resi conto in particolare che non c’è solo la violenza oggettiva,
conclamata, quella che si può portare in tribunale. C’è anche una percezione soggettiva della
violenza che solo la vittima può descrivere, mentre l’autore spesso nega o minimizza. Nessuno di
noi maschi può tirarsi fuori da una qualche forma di complicità. La violenza contro le donne ci
riguarda: prendiamo la parola e l’impegno come uomini recitava il titolo di un appello dell’Ass.
nazionale Maschile Plurale del 2009.
Non si tratta qui solo di fare mea culpa ma soprattutto di renderci conto di cosa ci siamo persi di
bello e interessante limitandoci a mostrare i muscoli e a fare la voce grossa. Io, per es. avrei perso l’infanzia dei miei figli e la possibilità di una relazione decente con loro se a un certo punto, spinto
fortemente da mia moglie, non avessi posto un limite al mestiere, a quel modo tipicamente maschile
di farsi occupare la vita intera dal lavoro. Abbiamo bisogno di un salto di consapevolezza, di una
rivoluzione simbolica che ci permetta di recuperare il senso del limite e il sentimento della
dipendenza senza i quali sarebbe inevitabile la guerra di tutti contro tutti, non solo la guerra dei
maschi contro le femmine. Una rivoluzione simbolica che io ritengo condizione necessaria anche
per l’efficacia di ogni percorso psicologico per andare oltre la violenza.
Viviamo un periodo storico molto rischioso. Scomparse le società pacifiche esistite o vagheggiate
nella preistoria umana oggi tutte le società sono pervase da violenze e sfruttamento di ogni tipo. In
qualche modo siamo tutti discendenti di popoli “genocidari”. Ma il modello basico di ogni violenza
è già tutto nella struttura piramidale delle relazioni in cui le donne e gli schiavi sono all’ultimo
gradino. La democrazia non fa eccezione perché proprio sull’esclusione delle donne e degli schiavi
oltre che da una guerra contro la minoranza è nata, ad Atene nel 399 ac. E’ vero che in ampie zone
del pianeta le donne hanno guadagnato spazi di libertà un tempo impensabili. Ma è anche vero,
credo, che questi spazi non sono guadagnati per sempre. Da una parte in occidente sta montando
una reazione maschile revanchista che non intende minimamente rimettere in discussione i modelli
tradizionali e che considera gli uomini che su questi temi riflettono, fanno percorsi, dialogano con le
donne, o plagiati o traditori, zerbini delle femministe. Fa parte di questa ondata anche la polemica
pretestuosa sull’inesistente teoria o ideologia “gender” promossa da ambienti fondamentalisti
cattolici o “teo-con”. Forse sta montando anche un inedito fondamentalismo maschilista. Dall’altra
in molte zone della terra la tradizionale sottomissione delle donne perpetua un regime di maternità
forzate che anche l’occidente ha conosciuto fino a 50 anni fa. Il tema della libera maternità richiama
quello della sessualità maschile. Sessualità che ancora oggi, anche tra i giovani, viene vissuta spesso
in modo banale e irresponsabile sia sul versante dei sentimenti che su quello delle conseguenze sul
corpo della donna. La sessualità femminile viene pensata, piegata e distorta secondo un
immaginario erotico che gli uomini attribuiscono anche alle donne. Che poi spesso vengono lasciate
sole davanti al dramma-dilemma maternità-aborto. Alcune femministe cattoliche giustamente hanno
fatto notare che il recente invito di Papa Francesco ai parroci di dare il perdono in confessione alle
donne che hanno fatto aborto e a coloro che le hanno aiutate (se sinceramente pentite/i) nulla dice a
proposito del mandante del delitto di aborto di cui all’art. 1398 del codice di diritto canonico anche
se l’art. non precisa chi sia (potrebbe essere il partner che non vuole accollarsi la fatica di crescere
un figlio, oppure un padre che caccia via di casa la figlia minorenne per il disonore…)
“Sostanzialmente un’altra conferma che l’uomo è autorizzato all’irresponsabilità riproduttiva, come
quando il rappresentante del Vaticano nega il voto alle delibere internazionali sui “diritti
riproduttivi”. Un’altra conseguenza di questa forma della sessualità maschile, specie se abbinata
all’esclusione delle donne dalla cultura e dagli studi, è uno squilibrio permanente della demografia
con un eccesso di bocche da sfamare rispetto alle risorse disponibili. Il copione finora seguito
dall’umanità è l’emigrazione di massa, o con la modalità della colonizzazione ed eventuale
genocidio dei nativi, o con la fuga dalle guerre e dalla miseria confidando nel buon cuore della
gente da cui si approda. Riusciremo noi europei/e, discendenti degli europei che hanno compiuto il
genocidio dei nativi americani, a risolvere in modo pacifico e non esclusivo il dramma di questa
gente condannata a fuggire dalla loro terra a causa delle guerre e della miseria che anche noi
abbiamo contribuito a generare? La soluzione, se c’è, non può che essere globale.
Per noi uomini la soluzione non può che passare attraverso una scelta personale e consapevole di
rinuncia alla violenza. Questa è una rottura che permette di uscire dalla ripetizione sia nei suoi
aspetti sociali e culturali e sia, spesso, in quelli che pensiamo meccanismi biologici ma che in realtà
sono abitudini acquisite e radicate. E diventa anche un fatto simbolico quando si intuisce che è
possibile un modo di stare al mondo oltre le nostre ataviche paure e più in sintonia con i nostri
desideri profondi che stanno tutti in parole come fiducia, amore, passione, bellezza, condivisione,
conoscenza, riconoscenza, gratitudine, felicità ecc… Ci riusciremo? Io non dispero perché in ogni
cultura esistono e sono esistiti uomini che hanno saputo trasformare l’aggressività in forza pacifica,forza che non teme altri punti di vista, forza che non teme di rimettere in discussione la propria identità, forza che sa cogliere i propri limiti e le proprie mancanze. E’ questa la forza maschile che permette ad Eros di riprendere la sua opera creatrice negli incessanti cambiamenti della realtà.
Castelfranco Veneto 24 Ottobre 2015
(www.libreriadelledonne.it, 24 ottobre 2015)
2) LUISA MURARO – “Abusi travestiti da ragionamenti”
Il 13 novembre 2015, poche ore prima dei paurosi eventi di Parigi, quando ancora le altre cose
mantenevano una loro importanza, il TG 3 delle ore quattordici ha dato una notizia impressionante.
Un tribunale civile di Genova (due donne e un uomo) ha sentenziato che una donna che era stata
gravemente maltrattata dal marito, non aveva diritto a nessun risarcimento perché aveva
denunciato il marito troppo tardi e lo aveva sopportato troppo a lungo. In pratica, la donna è
stata trattata come consenziente e complice dell’uomo violento.
Siamo davanti a un’iniqua interpretazione della legge e dei fatti, travestita da ragionamento. In altre
parole: un abuso di razionalità giuridica. Devo questa espressione alla giurista Silvia Niccolai,
che parla anche di “abusi sofistici della razionalità”. Lei ci segnala due cose. Primo, che questa
tendenza all’abuso travestito da pensiero razionale riguarda l’applicazione del principio di
uguaglianza. Secondo, che si torna così al neutro maschile che calpesta la giustizia nei confronti
delle donne.
Purtroppo la conferma di quest’analisi mi è arrivata pochi giorni dopo, da un fatto ancor più grave,
non in sé ma per le dimensioni.
La Corte costituzionale spagnola (che loro chiamano El Supremo) ha annullato la severa sentenza
pronunciata da un tribunale nei confronti di organizzatori e di profittatori (poliziotti
compresi) di due megabordelli, uno dei quali a Saratoga. Sentenza emessa dopo una lunga
inchiesta sui fatti e un esame delle leggi vigenti. Lo chiamavano “il caso Saratoga”.
Secondo El Supremo è ben vero che le donne sfruttate nei bordelli erano indotte a prostituirsi da
disgraziate circostanze sociali, ma, stante che sul posto non vi erano costrette con una violenza
diretta, bisogna considerarle “giuridicamente libere”. Testuale. Non veramente ma
“giuridicamente”: suprema ingiustizia, fatta anche allo spirito della legge.
In un articolo intitolato Prostituzione “volontaria” (“El País”, pagine Cataluña, del 17.11.15) il
magistrato José Maria Mena ha criticato la decisione del Supremo con tutta la calma consentita dalla sua grande e giusta indignazione. Esattamente così ha parlato la speaker del TG 3 dando la notizia della sentenza di Genova. Così ho cercato di fare io.
Ringrazio il magistrato J. M. Mena e l’amica Silvia Niccolai. Chiedo alle persone che non vogliono
vivere in un mondo senza libertà femminile, di non distrarsi dal fronte di lotta costituito da una
giusta interpretazione del principio di uguaglianza.
(www.libreriadelledonne.it, 20 novembre 2015)
3) LUCA FAZIO – “Io imparo a capire la guerra parlando con i giovani immigrati”
Con quali parole raccontare ai ragazzi l’orrore di Parigi? Domanda sbagliata se rivolta allo scrittore
Eraldo Affinati: i “suoi” ragazzi già sanno. Sono loro che raccontano. Affinati è anche insegnante,
di storia e italiano in un istituto professionale di Roma, e fondatore della Penny Wirton, una scuola
di italiano per stranieri. Ci lavorano numerosi insegnanti volontari, le lezioni non prevedono classi,
si privilegia il contatto a tu per tu con duecento adolescenti stranieri che hanno perso tutto, tranne la
vita. Sono minorenni che scappano dalle guerre, giovani profughi scomparsi nelle statistiche.
Stanno imparando e hanno tanto da insegnare ai “nostri” ragazzi, è quando si incontrano che si tiene
la lezione più vitale di tutte. Si capisce dal titolo di un suo libro da che parte sta il prof Affinati,
Elogio del ripetente (Mondadori, 2013). Con i più deboli.
A scuola si parla di Parigi?
Sanno perfettamente di cosa parliamo, sono adolescenti che fuggono dal terrorismo, dalla povertà
e dalle guerre, molti di loro avrebbero potuto essere reclutati dai talebani in Afghanistan. Sanno già,
dicono che questa è la tragedia da cui sono scappati. Molti ragazzi hanno perso i genitori.
Cosa accade quando incontrano gli studenti italiani?
Metterli in relazione con le nostre ragazze e i nostri ragazzi è l’obiettivo. Li porto spesso alla Penny
Wirton e li trasformo in insegnanti di italiano, si conoscono e così cadono i pregiudizi. Marco
e Giovanni capiscono Parigi quando ascoltano Mohamed. Gli adolescenti tendono a essere meno
ideologici, fanno presto ad uscire dallo schema bene/male, amico/nemico. Un liceale romano e un
egiziano se la raccontano subito, a 15 anni è più facile che a 30. Il confronto è utile per il migrante
che si sente legittimato e per l’italiano che impara a conoscerlo direttamente.
I ragazzi italiani come hanno reagito alla strage?
Il rischio che si faccia confusione tra profugo e terrorista c’è, potrebbe prevalere un atteggiamento
di paura e rifiuto degli immigrati. Non tutti i ragazzini però sono uguali, dipende dai genitori, dal
contesto sociale in cui vivono, nelle periferie possono prevalere certi pregiudizi, abitare a Ponte
Galeria o in corso Francia non è la stessa cosa. Proprio per questo penso che sia fondamentale
mettere in relazione le persone, i ragazzi devono incontrarsi per raccontare la loro storia, per
conoscersi.
Funziona sempre?
Sì. Basta poco. L’altro giorno Mohamed è venuto a scuola con una maglietta della Roma, abbiamo
parlato di Salah e ci siamo detti che è lo stesso nome del terrorista ricercato in tutta Europa. La
tragedia era presente nel discorso, ma ci siamo incontrati sulle cose che abbiamo in comune, in
questo caso la passione per la squadra di calcio.
Gli adolescenti sono molto auto centrati e forse hanno già gli anticorpi per difendersi da
questo orrore. Oppure servono parole nuove per raccontare quello che è accaduto?
I problemi degli adolescenti sono eterni, ma oggi c’è un problema specifico che si chiama
esperienza. Hanno molte informazioni e una quantità di stimoli impressionanti ma spesso sono
privati dell’esperienza diretta delle cose, manca il contatto umano, dietro a uno schermo si sentono
invulnerabili e alle prese con la realtà rivelano tutta la loro fragilità. E la non conoscenza diretta
genera pregiudizi. La scuola potrebbe giocare un ruolo importantissimo, ma è ancora strutturata su
uno schema ottocentesco, lezioni frontali, voti, promozione, bocciatura.Per tornare allo choc di Parigi e ragionare sui meccanismi inconsci di rimozione, non è che
forse i ragazzini per gioco hanno già visto e rivisto troppe volte immagini di massacri virtuali?
Questi giochi violenti di simulazione rischiano di farti perdere il contatto con la realtà, una cosa
è entrare in un bar e litigare, fare esperienza di un episodio violento, spaventarsi e poi ragionare su
cosa è successo, un’altra è terminare un’esperienza con la scritta game over sullo schermo. Le
relazioni umane vanno costruite, bisogna portare i ragazzi dentro i contesti, è uno spettacolo vedere
come una persona si trasforma quando sente un’esperienza come vera. Accade anche per una
lezione a scuola.
Intende dire che è sempre meglio giocarsela con l’incontro?
Proprio così. L’altro giorno Aziz, un ragazzo afghano, mi ha chiesto qualcosa che non riuscivo
a capire. Voleva pregare e non sapeva dove mettersi, mi ha chiesto il permesso e abbiamo cercato
insieme un luogo dove stendere il tappetino. Si è messo dietro la porta di un’aula rimasta socchiusa
e io sono rimasto lì a proteggere la sua concentrazione. Questo episodio mi ha comunicato una
sensazione molto forte, questo ragazzo ha espresso un desiderio e siamo riusciti a intenderci senza
che intorno a noi ci fosse alcuna morbosità. Dobbiamo avere più fiducia nel confronto fra esseri
umani, sapendo che a volte può anche essere rischioso. Ma è un approccio ineludibile, credo anche
per battere il terrorismo.
(il manifesto, 17 novembre 2015)
4) JUDITH BUTLER – “Il lutto diventa legge”
Sono a Parigi. Ieri sera mi trovavo vicino al luogo dell’attentato, in rue Beaumarchais. Ho cenato in
un ristorante che dista dieci minuti da un altro obiettivo degli attentati. Le persone che conosco
stanno tutte bene, ma ci sono molte altre persone che non conosco, che sono traumatizzate, o in
lutto. È scioccante, e terribile. Oggi le strade erano abbastanza movimentate, durante il giorno, ma
vuote di notte. Stamattina era tutto completamente fermo.
Appare chiaro, dai dibattiti televisivi, che lo “stato di emergenza”, anche se temporaneo, crea in
realtà un precedente per un’intensificazione dello “stato di polizia”. Si parla di militarizzazione (o
meglio, del modo in cui “portarne a compimento” il processo), di libertà e di guerra all’“Islam”,
quest’ultimo inteso come un’entità amorfa. Hollande, nel dichiarare “guerra” ha tentato di darsi un
tono virile, ma a colpire, in realtà, era l’aspetto imitativo della sua performance – al punto da
rendere difficile seguirlo seriamente. Proprio questo buffone, in ogni caso, assumerà ora il ruolo di
capo dell’esercito.
Lo stato di emergenza dissolve la distinzione tra Stato ed esercito. La gente vuole vedere la polizia,
una polizia militarizzata a proteggerla. Un desiderio pericoloso, per quanto comprensibile. Molti
sono attratti dagli aspetti caritatevoli dei poteri speciali concessi al sovrano in uno stato di
emergenza, come ad esempio le corse in taxi gratuite, la scorsa notte, per chiunque avesse bisogno
di tornare a casa, o l’apertura degli ospedali per i feriti. Non è stato dichiarato il coprifuoco, ma i
servizi pubblici sono stati comunque ridotti e le manifestazioni pubbliche vietate – ad esempio i
rassemblements (“assembramenti”) per piangere i morti sono stati considerati illegali. Ho
partecipato a uno di questi, a Place de la République: la polizia continuava a dire a tutti i presenti di
separarsi, ma in pochi obbedivano. Per un attimo, ho visto in questo un po’ di speranza.
Quanti commentano i fatti, cercando di distinguere tra le diverse comunità musulmane, con i loro
diversi posizionamenti politici, sono accusati di badare troppo alle “sfumature”: sembra che il
nemico debba essere al contempo indefinito e singolarizzato, per essere annientato, e le differenze
tra musulmani, jihadisti e Stato islamico, nei discorsi pubblici, si fanno via via più labili. Tutti
puntavano il dito, con assoluta certezza, contro lo Stato islamico ancora prima che l’ISIS
rivendicasse gli attentati.
Trovo significativo, personalmente, che Hollande abbia dichiarato tre giorni di lutto ufficiale, nello
stesso momento in cui intensificava i controlli di sicurezza. Si tratta di un modo nuovo di leggere il
titolo del libro di Gillian Rose, Mourning Becomes the Law (“Il lutto diventa legge”). Stiamo
partecipando a un momento di lutto? O stiamo legittimando la militarizzazione del potere statale, o
forse la sospensione della democrazia…? In che modo questa sospensione accade con più facilità,
quando viene venduta in nome del lutto? Ci saranno tre giorni di lutto pubblico, ma lo stato di
emergenza può essere prorogato fino a dodici giorni, anche senza approvazione dell’Assemblea
nazionale.
La voce dello Stato dice che abbiamo bisogno di limitare le libertà, al fine di difendere la libertà –
paradosso che non sembra affatto disturbare i commentatori in tv. Gli attacchi, in effetti, erano
chiaramente rivolti a luoghi emblematici della libertà quotidiana in Francia: il bar, il locale da
concerti, lo stadio. Nel locale, a quanto pare, uno dei responsabili delle 89 morti violente lanciava
un’invettiva contro la Francia per non essere intervenuta contro la Siria (contro il regime di Assad),
e contro l’Occidente per i suoi interventi in Iraq (contro il regime baathista). Non è, quindi, un
posizionamento (se così si può definire) totalmente in contrasto con l’intervento occidentale in sé.
C’è, poi, una politica dei nomi: ISIS, ISIL, Daesh. La Francia rifiuta di dire “etat islamique”, in
quanto ciò significherebbe riconoscerlo come Stato, ma vuole tenere “Daesh” come termine, inmodo da non doverlo tradurre in francese. Nel frattempo, è questa l’organizzazione che ha
rivendicato gli attentati, come rappresaglia per tutti i bombardamenti aerei che hanno ucciso i
musulmani sul suolo del Califfato. La scelta del concerto rock come obiettivo – come scenario per
gli omicidi, in realtà – è stata così argomentata: ospitava “idolatria” e “un festival della
perversione”. Mi domando dove abbiano trovato il termine “perversione”. Suona quasi come uno
sconfinamento da un altro contesto.
Tutti i candidati alla presidenza della Repubblica non hanno lesinato le loro opinioni: Sarkozy
propone i campi di detenzione, affermando la necessità di arrestare chiunque sia sospettato di avere
legami con jihadisti. Le Pen parla invece di “espulsioni”, dopo aver definito “batteri” i nuovi
immigrati. E non è da escludere che la Francia decida di consolidare la sua guerra nazionalista
contro gli immigrati dal momento che uno degli assassini è arrivato in Francia passando per la
Grecia.
La mia scommessa è che sarà importante monitorare il discorso sulla libertà nei prossimi giorni e
nelle prossime settimane, poiché ciò avrà implicazioni per lo stato di polizia e per l’affievolimento
delle precedenti versioni della democrazia. Una libertà viene attaccata dal nemico; un’altra viene
attaccata dallo Stato, proprio mentre difende il discorso dell’”attacco alla libertà” da parte del
nemico come un attacco contro ciò che si ritiene costituisca l’essenza della Francia, ma sospende la
libertà di assembrare (la “libertà di espressione”) nel bel mezzo del lutto, e si prepara per una ancora
maggiore militarizzazione dei corpi di polizia. La questione politica centrale è questa: quale
versione dell’estrema destra vincerà le prossime elezioni? E quale diventa la prossima “destra
tollerabile” se Marine Le Pen è considerata di “centro”? È un tempo spaventoso, triste, di oscuri
presagi; ma noi siamo ancora in grado di pensare, spero, di parlare, e di agire, in mezzo a tutto ciò.
Il lutto sembra essere stato completamente circoscritto all’interno del territorio nazionale.
Difficilmente si parla dei quasi 50 morti a Beirut il giorno prima, o dei 111 uccisi in Palestina solo
nelle ultime settimane, o degli attacchi ad Ankara. La maggior parte delle persone che conosco
dicono di trovarsi in una “situazione di stallo”, nella più totale incapacità di inquadrare lucidamente
la situazione. Un modo per farlo potrebbe forse consistere nell’abbracciare una concezione
trasversale del dolore, cercando di comprendere in che modo lavorino le metriche del lutto,
cercando ad esempio di comprendere perché il bar mi colpisca al cuore in un modo che gli altri
obiettivi sembrano invece non fare. La paura e la rabbia possono gettare con assoluta fierezza tra le
braccia dello stato di polizia. Suppongo che sia questo il motivo per cui mi trovo meglio con chi si
trova invece nella situazione di stallo. Ciò significa che si prendono del tempo per pensare. Ed è
difficile pensare quando si è paralizzate dallo spavento. Ci vuole tempo per farlo, e qualcuno che sia
disposto a farlo insieme a te – qualcosa che ha la possibilità di accadere, forse, in un rassemblement
non autorizzato.
Apparso su Revista Cult, 13 novembre 2015
Tradotto da Federico Zappino, con la collaborazione di Marco Liberatore
5) Recensione ÅSA LARSSON “ Sacrificio a Moloch”
Marsilio 2012
Nel 1914 Elina Pettersson, una maestra ambiziosa e deliziosa, arriva a Kiruna, una città mineraria
affollata di operai. La giovane donna si innamora proprio del direttore della miniera, con gravi
conseguenze… Dopo il ritrovamento del corpo senza vita della nipote di Elina Pettersson è il
procuratore Carl von Post ad occuparsi del caso. Però quando Rebecka Martinsson scopre che tutta
la famiglia della vittima è stata decimata da terribili incidenti e brutali omicidi, comincia a indagare.
…Il padre ucciso e divorato da un orso. Il figlio, investito da un’auto. La nonna paterna […]
assassinata. E poi Sol-Britt stessa, ammazzata a colpi di forcone. […] La famiglia di Sol-Britt.
Aveva avuto un po’ troppa sfortuna e troppi incidenti…
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